Oggi affacciandomi sul muretto del lungotevere ho scoperto cos’è Roma.
Roma è fetida.
Il suo è una sorta di “fascino da latrina vecchia” (di quelle di marmo arrotondato e che con il tempo ingiallivano per il tanto contatto con il piscio) che va consumandosi di decennio in decennio e di secolo in secolo, senza redenzione.

Infatti Roma, anziché migliorarsi dentro, allarga la sua piaga in periferia; forse sperando che i suoi estremi saranno meglio congegnati, meglio architettati, meglio abitati.
Invece dal lungotevere la latrina si espande, si irradia e non conosce confini. Forse non li ha. Vi è una sorta di riconquista dei territori da parte di Roma; riconquista che però non è sinonimo di miglioramento. Roma inquina tutto, spiscia tutto con la sua aria raffazzonata, finto elegante, una volta imperante ed austera ma ora ridotta a raggrinzito putridume di sé, gettato tutto intorno il più lontano possibile. Quella che i turisti vedono è una ristretta area di marciume decentemente conservato, sufficientemente diserbato. Tedeschi e americani vedono in questo trionfo di mattonato oramai cascante non il ricordo di un Impero infallibile quanto l’emblema dell’italianità: l’avanzo, il detrito, il puzzo di fritto, il pancione sulla soglia del chiosco della grattachecca. E per tutti loro questo è pittoresco; deliziosamente italiano. Tutto un po’ cialtrone, canzonatorio, melanconicamente allegro e terribilmente volgare. Volgare come i tubi del gas che dalla strada principale scendono a precipizio i muri del lungofiume per raggiungere esercizi abusivi, arenati sulla mota del fondo.
D’altra parte basta spostarsi di qualche decina di metri e Roma diventa un banale paesone disorganizzato, case gialle e case ocra, case blu e case marrone. Tutte accatastate inseme in un groviglio di fili di ex filobus, stazioni di metro in costruzione da decenni e autobus che sfiatano fumi in ingorghi. Ma questo lo sappiamo.

Leave a comment