
Oh, datemi un punto da cui fuggire: un buco, un pertugio, un varco.
Io non fuggirei, credo. Sono così felice della mia galera! In fin dei conti l’ho costruita lacrima per lacrima. E quando queste lacrime si sono solidificate, sono divenute talmente salde e massicce da non permettere alcuna scappatoia.
Questa mia è una “cinta lacrimaria“; un orgoglio, un mio vanto. Decenni e decenni sono occorsi affinché diventasse perfetta. Ogni mattone, trasparente ma invalicabile; ancor più crudele se permette la visione della libertà e ne impedisce il raggiungimento. Un eterno agognare: un anelito senza fine che in nulla sfocia. Lo so!
Ma ne me vado caracollante e già stanco (in un’età che permetterebbe ancora molto) senza pretendere nulla da me e per carità, senza nulla desiderare da altri.
I colli diafani e lisci delle donne non mi dicono più molto. Le loro levigate guance ancor meno. Forse, mi fa ancora trasalire un poco il polpaccio, sopra il piccolo tallone, quando si inarca per uno slancio e quindi si fa rotondo, solido. Ancora mi perderei dietro quello, percorrendone la china, accarezzandone la curva, come un centauro indomito.
Ma quello e poco altro mi attrae oramai, da questo tritoeritrito.
Se non fotti vali poco; se non guadagni vali poco; se non sei divertente vali ancor meno. E se non sei divertente e non guadagni non fotti. Un tritoeritrito che si morde la coda come un gatto schizofrenico.
Datemi un varco da cui scappare; un buco. Di certo non fuggirei, ma resterei a guardare dietro i vetri, le novembrine lacrime che li istoriano.

Leave a comment