Mi pesa sempre di più tornare da dove provengo.
Credevo che qui ci fosse amore o ci fosse stato. Ma fu tutta una illusione data dalla mia giovane età, dalla mia inesperienza di vita, dalla mia inettitudine. Quello che io credevo “amore” altro non era che morbosa ostentazione di affetto. Una ostentazione che doveva valer come prova di una “rettitudine” pubblica.
Ma il bambino che cresceva in quella casa non era “la perfezione”; non era da mostrare in pubblico. Così veniva tenuto nelle maglie di una quotidianità malata. Tutto gli veniva portato in grembo. Tutto gli veniva concesso a condizione che egli non affacciasse la sua testolina castana al mondo. Che non si vedesse che “claudicava”, che non si vedesse che aveva “delle difficoltà a fare le cose come le facevano gli altri”.
E io credetti che quello era soltanto amore, riparo, protezione.
Quelle scale ogni volta le percorro con maggior fatica. Una volta, fingendo di essere un atleta famoso, le salivo a due a due, appoggiando il palmo della mano sulla coscia che si sollevava, per coadiuvarla nello sforzo.
E così le scendevo a due a due, lasciando il salto di tre alla fine, quando ormai ero arrivato al portone e provando assieme trasalimento e stanchezza.
Così arrivo al portoncino dei miei.
Un tempo delle fiere targhette campeggiavano al centro della porta: cognome e iniziale del nome del capofamiglia. Una cosa un po’ “fascia” che al nonno piaceva tanto.
Quelle targhette ora non ci sono più. Ora la gente tende a nascondersi, a non apparire. Se qualche cognome c’è, sta sul campanello al fianco della porta. E quasi sempre sono nomi e cognomi “forestieri”.
La luce qui è stata sempre gialla, laminata da qualche striscia di arancio nei tardo pomeriggi estivi. Ma mai convintamente bianca; mai completamente schietta.
Ha fatto da colonna sonora di questo luogo il singulto e il sibilo del motore dell’ascensore in movimento. Il suo occhio giallo che nello sforzo si fa rosso. Il più o meno bestiale sbattere di porte, il brusio della gente che scende al piano, deposita le buste, sgrida i bambini.
Mi ricordo di una bambina di cui fui innamorato. Si chiamava Adelde e sua zia viveva al pianoterra, proprio accanto alla tromba dell’ascensore. Era quella sua zia una donna bruttina e schiva, al limite dell’asocialità. Indossava delle camicette con sbalzi e falpalà sulle gonne che facevano sembrare le sue gambette e i polpacci ancor più segaligni e rigidi di quanto in realtà fossero.
E il mistero era che questa nipotina, bruna di capelli, appariva del tutto estranea a quella bruttezza. Era di una bellezza candida nei suoi vestitini con le bretelle bianche e i capelli raccolti in due ciuffetti laterali chiusi da una sfera rossa. E ancora più misterioso era il suo sguardo fisso su di me, che non mi sentivo mai osservato al di fuori dei miei difetti. Questo mi colpiva e mi affascinava, anche se mai lo palesai. Aveva qualche anno meno di me. Era una bambinetta. Fu forse il primo invaghimento della mia vita.
E davanti al portoncino di mia madre penso che non rammento il rumore dei passi di mio padre. Ma in compenso ricordo che ogni volta che mi apriva nel vedermi, sorrideva.
E quello era l’amore.
Era una specie di nocciolo, di nucleo intorno al quale ruotavano solo imitazioni. Tutto quello che tentava di somigliargli ora suona al mio ricordo come una sonora pernacchia; come una smorfia.
Era tutt’al più affetto “di rappresentanza”, “devozione da parata”. Qualcosa da esibire al pubblico.
Perché la gente giudica e questo giudizio, per alcuni, è più toccante di tutto: un vero assillo.
Quel vero amore era sottovalutato. Io ne sottovalutavo il peso, la costanza, la testardaggine e l’intensità. Ero come l’attricetta idiota, troppo amata dal ragazzo che la conobbe da bambino. Un vero amore che al cospetto di tonnellate di adulazione perdeva consistenza, si sgretolava e spariva.
Ma a dispetto di me, di tutti, l’odore di quell’amore è rimasto su questo pianerottolo. La sansevieria che mio padre piantò è ancora qui, che fa foglie, abbarbicata ad uno scalino. Io sono ancora qui, abbarbicato alla vita, che foglie ne perdo ogni giorno che passa. La distanza tra i giorni diventa sempre più inconsistente, equidistante ed impalpabile. Il ricordo di quell’uomo diviene ora dopo ora come una minestra calda e fumante dopo una giornata intera a camminare sotto la pioggia. Un abbraccio di vento. Una carezza data da una corrente d’aria.

Mio padre non c’è più?

Tagliacozzo. Interno @crphoto64
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