Pensieri napoletani (2)

Intorno a Santa Chiara mille trattoriole. Hanno un uscio piccolissimo: una vetratella che dà su uno spazio capace a contenere una decina di tavoli da due. Su una parete lo sfogo per la cucina di mattonelle di Vietri, turchesi o verdi oppure variopinte. Alle pareti avete da scegliere: o Totò o Maradona, a volte Troisi. Si entra come si entrasse in una casa. Bambini che fanno chiasso in un angolo; la giovane madre li prende a male parole. Su tutto si alza il profumo crusco di mille cose. Qualche tovaglia porta un buco come se fosse un trofeo di guerra. I bicchieri sono spessi come non li fanno più.
Ad un angolo, come un monumento vestito, un elegante vecchio che appoggia le mani su un bastone da passeggio.
Ha i capelli tirati di brillantina, i baffi fatti stamane. Un completo grigio screzisato e un gilet nero. Si guarda attorno con uno sguardo che è un misto di sfottò ed interesse per quello che accade intorno. Dietro di lui una finestra aperta.
Ci sediamo. Un uomo sulla cinquantina, grasso, con un paio di baffi di carbone ci porta un cestino di pane. E’ pane pizza: morbido, profumato, con del sale grosso sparso sulla superficie. Solo questo vale la fermata. Fuori la gente è un fiume. Il Sole è un fiume.
Ad un punto si affaccia la cuoca. Donna bruna, con i capelli che sfuggono al copricapo bianco che cerca di trattenerli.
La voce è tagliente:
“Don Giuseppe. Chiudete quella finestra, che fa corrente!”
“Io la finestra non la chiudo! Stavo appunto godendo questa arietta fresca! Amabilissima! Non è vero signori?” e si volge a noi con lo sguardo di chi non s’aspetta che una risposta affermativa.
Noi annuiamo con la testa. Lo facciamo esclusivamente perché la cuoca non ci senta.
Ma la donna non è paga:
“Don Giuseppe chiudete la finestra o la chiudo io….” come se lasciasse intendere sfaceli.
“Ah… ho capito. Voi volete perdere un cliente…”
“Ohi che gran cliente che perderò! Hi che gran cliente!”
“Donna Nunzia voi mi state offendendo! Credevo di essere ospite gradito nel vostro locale. Ma vedo che voi fate di tutto per perdermi…”
Intanto arriva la pasta al ragù: festa di rosso carminio fumante. Un Inferno di goduriosa perdizione. Da fuori vengono canti, canzoni e cantanti. L’uomo del Karaoke sul balcone ha ripreso dopo la pausa pranzo. Cala la cesta e salgono monete.

E ‘a luna rossa me parla ‘e te
Io le domando si aspiette a me
E me risponne si ‘o vvuo’ sape’
Cca’ nun ce sta nisciuna

E io chiammo ‘o nomme pe’ te vede’
Ma tutt’a gente ca parla ‘e te
Risponne è tarde che vvuo’ sape
Cca’ nun ce sta nisciuna”

San Biagio dei librai (Napoli) @crphoto64

Pensieri napoletani (1)

Ho nostalgia di Napoli. Mi lascia a bocca asciutta l’astinenza di lei, dopo un po’. Tutti quei sapori! E tutti assieme assalenti! Il non assaporarli più, dopo qualche tempo rende tristi.
E risale in me quella cupezza che attraverso i suoi vicoli magicamente mi abbandona; che si stempera grazie alla rumorosità della sua gente.
Napoli come me individualista ed elitaria. Come me pretende, se tanto dà.
Le ombre e le subitanee luci restano impresse nella mente come sopra una pellicola. Gli sguardi irriverenti, seduti su muri sbrecciati ad un metro da scogli crepitanti e gli sguardi seducenti e distanti delle belle ragazze brune. Tutto questo, in un vorticoso carosello di cose e di persone, di cucina e di bellezza. Di tutto questo, di questa Babele che viene dalla Grecia, in me si sente la mancanza. Un languore, una tenerezza struggente di ricordi.

Mi colpiva alla fronte il sole una volta usciti dalla Galleria. All’angolo la gente faceva ressa per una pizza piegata in due. “Comm’ha da ess’?” chiedeva la giovane commessa. Ragazzi e donne grasse stavano intorno alla pensilina, propaggine della bottega, preda degli affamati.
Giravo allora verso il Teatro San Carlo, su quella pietra grigia e luminosa che conduceva al mare. Scendevano teatranti e robusti soprani dalle interiora del Teatro. Andavano a prendere un caffè lì, come inizia via Toledo e la gente si mischia alla gente in un vortice.
Sopra tutto, ogni tanto, il cupo suono di una nave; una ventata di pesce, un effluvio di frittura.

Soprattutto dopo la pioggia capisci perché Napoli ama l’azzurro. Perché si fa azzurra. Le vie che tagliano dal centro al Porto ne sono addirittura dilavate. Per qualche ora la città si fa pura come una vergine, spazzata dal vento che scaccia all’interno le nubi. Le signore inglesi che attraversano le strade nei loro impermeabili trasparenti fanno contrasto alle napoletane sbrigative e scure, dagli occhi taglienti e bassi, che tante volte si ingarbugliano in discorsi tra di loro, incomprensibili.

E come sono belli e distinti i camerieri a Napoli! Indossano le loro livree bianche con un orgoglio principesco. E come lustrano quei bottoni dorati sui polsini. Stando con le gambe diritte si piegano in avanti poggiando un calice, adagiando un vassoio. Sono quasi sempre uomini attempati con i capelli grigi.
Con sveltezza malandrina si voltano a porgerti la tazza che scotta e mostrano un sorriso di sottecchi, messo un po’ in tralice, che si intuisce ma non si capisce.
Siente Siente…” pare che dicano. “Taa facc scuttà a vocca, stavòta!”