La nostra casa

Foto di Paola

La nostra casa era grande; più grande di quanto meritassimo.
A forma di ELLE le girava intorno un giardino di dalie. Il nonno lo teneva vivo e fra di esse, ogni tanto, seminava pomodori. Immaginate il Paradiso goliardico di un rosso vivo punteggiante una distesa di rosa, arancio e bianco. Erano i colori del benessere. Erano i colori della spensieratezza.
Ero talmente stanco del rosso dei pesci che li uccidevo di nascosto, durante quei pomeriggi di vetro, quando tutti schiacciavano il pisolino piccolo borghese, con nelle pance gorgoglianti grigliate e peperoni, distesi negli interstizi d’ombra o nelle stanze asfittiche, con le imposte chiuse, in una notte filmica.

Inseguivo le lor scaglie fin sotto i massi. I poveri pesci palpitanti si celavano battendo furiosi code e branchie. Finché sentivo nella mano il corpicino liscio e trepidante. Allora, come Dio in bermuda e magliettina li issavo in un mondo a loro del tutto ignaro e nemico. Strabuzzavano gli occhi: agghiacciati. Li lasciavo lì, sul bordo della fontana, al confine tra la vita e la morte. A pochi centimetri guizzava l’acqua e il respiro loro. Qui, ove li avevo posti, si contorcevano negli anditi oscuri dell’ultimo fiato, perdendo man mano vividezza di colore e con esso la vita, e con essa, il mio interesse.
Ma era la vita di un pesce.
“Animali…” avrebbe detto la mamma, con il suo glaciale sguardo.

Poi la distanza dei rumori, la voce di un angelo che immaginavo sulla mia spalla, lo sguardo del Salesiano che diceva messa tutte le domeniche mi riportavano alla mia realtà d’assassino.
Un dolore mi calava sul petto, sulle spalle: conati di pianto.
Con estrema cura rimettevo la povera bestiolina in acqua, attento a che non subisse colpi; sperando che il lui balenasse ancora una menoma vita.
“Su! Su!” lo incitavo, accompagnandolo con l’indice.
Rimaneva in tralice, come un corpo che non sa se galleggiare o andare a fondo. L’intima vita (quella briciola che ne restava) provava ad ergersi sopra l’inevitabile. Il misero muoveva la codina. Uno o due ondeggiamenti che mi facevano sperare nel miracolo.
Oh Dio! Se fosse rinato o resuscitato avrei detto mille Ave Maria, avrei accompagnato la nonna mille volte a far la spesa, avrei concesso a mio padre mille abbracci che invece, avaro e viziato che ero, gli negavo.

Ma quello… stupido… restava inane, morto, inservibile.
Allora lo ponevo sotto un sasso, in un angolo nascosto del giardino. Come contrastava il suo tanfo acquatico con l’odore di muffa sotto le sempreverdi! Com’era strano che stesse là, del tutto ignoto a quel mondo; sepolto in terra quando avrebbe dovuto sfarsi nell’acqua.
Allora, coperto di terra, lo depositavo di nuovo in acqua, dove le scaglie di nuovo polite, tornavano per un poco a luccicare.
“Ecco la tua giusta sepoltura!” pensavo io, mentre il vetro d’intorno non si disfaceva, anzi alitava più forte e il rugghio del mare arrivava distinto e non aveva abbastanza forza da lenire la cattiveria umana.
(gennaio 2022)