La nobiltà

Ho fotografato questo ragazzo. Era dalle parti del Pantheon. In questa livrea rossa, tutto impettito e tutto impacciato. Un bel ragazzo: tipica bellezza romana: alto, riccioluto, che ad ogni passante offriva la possibilità di un pranzo ottimo a prezzo modico nel ristorante lì vicino.
Mi colpii perché faceva sempre lo stesso gesto, allungando un braccio e tendendo un menu plastificato ai passanti; accennando un minimo sorriso che subito, quasi vergognandosene, ritraeva, diventando di colpo di nuovo serio, fino al prossimo turista.
“Che tocca fare per vivere!” mi dissi.
Non è che io facessi un lavoro più onorevole, eseguendo gli ordini impartitimi da dirigenti incapaci, ma sicuramente ero consolato dal fatto di guadagnare uno stipendio onesto.
Lui era parte della coreografia romana. Nella piazza pulita per i turisti, al centro di un dedalo di immondizie ammonticchiate. Provai per lui una immensa tenerezza.
Vorrei dirgli che l’ho fotografato per l’immenso rispetto che gli porto e che vorrei che tutti, il mondo intero, gli portasse.
Questo ragazzo poi sarà tornato a casa, avrà fatto una bella doccia, avrà incontrato chi ama.
Sta tranquillo: chi ti conosce sa che non è il lavoro a dare qualità ad un uomo. Sono le cose che ti circondano; che hai attorno, che leggi e che scrivi. Che fotografi e che visiti viaggiando. E’ la saggezza della vita, non la capacità a far di conto o quella, becera, della competitività.
Sei bellissimo nella tua livrea, ma saresti bello anche con una polo o una canotta.
Per questo ti ho fotografato.
Se passi su questo profilo, mandami il tuo saluto.

Percorsi

Fino a vent’anni immaginavo la vita come una interminabile linea diritta, che trovava requie in qualche incontro, in una notte di passione, in una solenne sbronza, nell’incontinenza delle pulsioni sfrenate. Ma sostanzialmente una linea retta, imperturbabile, non intaccabile, assolutamente risoluta a continuare all’infinito.
Poi fino a quaranta l’ho immaginata come un percorso con molte curve, rallentamenti dovuti alla vita che si ripeteva sempre uguale: quaranta minuti per andare al lavoro; più di un’ora per tornare. L’imbecille trivialità delle multinazionali che ti danno il pane quotidiano e che all’improvviso te lo tolgono. E queste curve che diventano sempre più strette e chiuse, con solo qualche breve tratto ancora dritto; le ferie in estate, la giovinezza dei figli, la baldanza di non essere ancora definitivamente maturi, l’arroganza dell’illusione di avere ancora molte cartucce da sparare.
A quasi sessanta, abbracciando la piccola testa tremolante di mio padre, mi accorgo che la vita è un cerchio. Ed ora lui è tornato il bambino indifeso che ero. Tutt’ossa; aiutato a crescere da continue cure ricostituenti.
Io sul passeggino spinto da lui, che ascoltava novantesimo minuto con la radiolina a “transistori” attaccata alla tempia e ora io, che spingo la carrozzina su cui lui siede attraverso i corridoi, facendo le gimkane, dimenticando per un attimo la sua malattia; illudendomi che anche in questa tristezza ci sia del gioco, ci sia da imparare, ci sia da sperare.
La vita è un cerchio, dove tutto ritorna. Torna lui bambino dove io sono a mezz’età.
E in fondo penso che sia la cosa più naturale del mondo.

(nell’immagine – H. Matisse)