Facce

Dopo la visita ai parenti ricoverati, niente comunica più degli occhi. Ci sono quelli che escono dagli ascensori con lo sguardo neutro, che fa come da confine con quello che succede intorno. Sono i figli o i nipoti dei ricoverati anziani senza più speranze e che presto saranno mandati a finire i giorni in un asettico quanto implacabile hospice. Camminano con le spalle diritte: consapevoli e rassegnati, con le chiavi della macchina in una mano. Erano già entrati con le chiavi in mano, perché la loro visita è stata breve, dolorosa, di circostanza. Le solite frasi, i soliti sguardi, le solite mani che si trovano e si lasciano perché tanto alla fine, il peggio tocca a chi rimane.
Poi ci sono quelli che escono ridendo, scherzando, dandosi pacche sulle spalle. Sono i parenti dei novelli papà o di fratturati, lussati: gente che uscirà presto. Persone che hanno traumi leggeri, di passaggio. Impigli nel corso della vita. Oppure sono i falsi cinici; quelli che pur avendo un gran dolore dentro, non mostrano di averlo. E soffrono il doppio, avendo come unico appiglio un farmaco che li acquieta o un vizio che li rovina.
Quelli con le spalle appesantite da un masso, che guardano fisso davanti a sé sono quelli con in ospedale un parente giovane, improvvisamente ammalato o vittima di una disgrazia che non ha più rimedio; una madre ancora nel fiore degli anni, presa da qualche male che non si riesce a vincere, qualcuno che ha un congiunto costantemente appeso ad un filo: sempre tra la vita e la morte e “che morire non vuole morire ma nemmeno vuole vivere”. Sono quelli che non sanno più cosa fare o pensare, evidentemente il cui destino è stato molto peggiore di quello di altri. Perché tra poco è Ferragosto, ma questa aria condizionata in corsia non fa distinguo tra le stagioni. Potrebbe essere Natale, Autunno, Pasqua o Capodanno.
Ma tu guarda uscire la gente dall’ospedale per approfondire la tua conoscenza della umanità…

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Lena per la lana

C’è stato un tempo in cui veniva l’omino della lana a cardare il dentro dei materassi. Di quando per tre giorni almeno restavi senza dormire ma ti pareva di stare su un tappeto di nuvole. Si metteva sul pianerottolo, poneva tra le gambe un trespolo chiodato ed iniziava con grandi strappi a sfilacciare la lana, fagotto per fagotto, fino a che da una parte non restava tutta quella simile a zucchero filato, di una consistenza strana, grigiastra.
Era un uomo chiamato “materazzaro”. Non aveva un nome proprio. Quando lo incontravano per strada gli facevano “Materazzà prendi un caffè?” Oppure “Materazzà, oggi non cardi eh?”
Era una grande spesa per quei tempi. Non tutti si potevano permettere di far cardare la lana di un materasso. Quando apparecchiava sul nostro pianerottolo era contento, perché veniva per cardare almeno due, tre materassi e faceva giornata senza spostarsi troppo in giro per il paese.
Questo dava il diritto a mia nonna o a mia madre di pretendere che il lavoro fosse fatto più bene.
“Materazzà, mi raccomando questa lana…”
“Materazzà, facciamoli belli sti materassi…”


Mi faceva un po’ pena. Era come se il suo lavoro fosse considerato poca cosa rispetto ad altri. Eppure con quanta lena, per tutte quelle ore, su e giù a furor di braccia tirava a e strappava quella lana, rendendola simile a capelli di un mago: lunga, grigia e liscia. Ma non toglieva la giacca, benché faticasse e lasciava la scoppola appoggiata su un angolo della ringhiera.
Ricordo che indossava pantaloni e giacca scuri, una camicia bianca e una scoppola scura, forse d’un verde sottobosco. Era un uomo di media statura, che mai avresti giudicato capace di tanta foga ed energia.
Al movimento che faceva, sempre uguale, come quello di un rematore schiavo in una trireme romana, avevo associato una canzonetta. E quando mi mettevo ad osservarlo sulla sogli di casa, me la canticchiavo a bassa voce:
“Lena per la lana! Ohi!! Lena per la lana!”
A mia zia, zitella sempre in cerca di spasimanti, venne proposto più volte:
“Il materazzaro ha un sacco di soldi… lo vedi quanto piglia per cardare un materasso ogni volta? Sarà un tantinello più grosso, ma che vuoi che sia qualche anno di più. Quello ti fa stare una signora!”
Al che lei rispondeva, con lo sguardo sdegnato: “Sì che bello guarda… la moglie del materazzaro! Come si chiamerebbe, Materazzara? Pensa che fine… pensa che elegante…”

Poi, come aveva finito, riponeva diligentemente ed in un ordine preciso gli attrezzi e si faceva pagare.
“Alla prossima Materazzà!”
“Alla prossima!” rispondeva.

Ma a tutto c’è una fine. Tutto sarà sostituito. Tutto cambia e si trasforma e si distrugge. Chi avrebbe più voluto un uomo tutto il giorno a sferruzzare dentro casa o per le scale quando si potevano aveve materassi in gommapiuma, economicissimi che te li portavano addirittura a casa? A rate poi. Tutto presto si comprò a rate e anche noi a furia di rate siamo stati comprati.