Memorie

Il mercato rionale mi terrorizzava. Quel mettersi sguaiatamente in mostra, esibendo stoccafissi come simboli fallici; il grido greve del salumiere che ha il “pecorino addrizzamanico”; lo sguardo sotterraneo dei ragazzi accanto alle “buatte” di pesce salato; l’odore forte che si levava dietro il teatrino di tende, dove s’ammucchiavano le cotenne, i mezzi pesci, gli scatoloni. Le casalinghe guardinghe, sempre timorose di salassi, addomesticate dai mariti ai quali “piaceva quello o piaceva quell’altro e guai a portargli qualcos’altro…”

Tutta quella funzione e quei sorrisi da commedia dell’arte, con la mano tesa verso la punta del piede, come Arlecchino. Quell’atmosfera generale da “baraccone”; quell’aria da Circo. I Mangiafuoco napoletani che vendevano le scarpe a poco. Le parannanze gialle a fine giornata, coi lacci lisi dai troppi nodi. L’odore di cacio che si annida nei polsini e dietro al collo. Le donne coi polpacci spessì e le zeppe. Donne messe curve dietro un tavolato, le mutandine abbassate alle caviglie, la testa ondulante e gli occhi sognanti.

Avevo terrore di tutta quella vita palesemente mostrata e tutta concentrata in poche decine di metri, pullulante come da un formicaio.

Sandro Amici

Mi ricordo

Mi ricordo le sedie alla rovescia per appoggiare il petto allo schienale e le chiacchiere serali all’infrescata nel ritornare della brezza al mare.

Gli sfottò leggeri e le risate profonde di stanchezza e quella dolce ebbrezza che risaliva dal gorgoglio del vino.

Il corteggiare con le mezze frasi e sguardi di sfuggita. Le fughe all’ombra con una innocente scusa e il ritorno trafelato.

Rammento la calma celeste delle cose. Il caldo delle mura ed il sudore che non nasceva dalla paura del giorno e della notte. Il sonno per stanchezza e la dolcezza delle primavere.

Foto di Sandro Amici

Lena per la lana

C’è stato un tempo in cui veniva l’omino della lana a cardare il dentro dei materassi. Di quando per tre giorni almeno restavi senza dormire ma ti pareva di stare su un tappeto di nuvole. Si metteva sul pianerottolo, poneva tra le gambe un trespolo chiodato ed iniziava con grandi strappi a sfilacciare la lana, fagotto per fagotto, fino a che da una parte non restava tutta quella simile a zucchero filato, di una consistenza strana, grigiastra.
Era un uomo chiamato “materazzaro”. Non aveva un nome proprio. Quando lo incontravano per strada gli facevano “Materazzà prendi un caffè?” Oppure “Materazzà, oggi non cardi eh?”
Era una grande spesa per quei tempi. Non tutti si potevano permettere di far cardare la lana di un materasso. Quando apparecchiava sul nostro pianerottolo era contento, perché veniva per cardare almeno due, tre materassi e faceva giornata senza spostarsi troppo in giro per il paese.
Questo dava il diritto a mia nonna o a mia madre di pretendere che il lavoro fosse fatto più bene.
“Materazzà, mi raccomando questa lana…”
“Materazzà, facciamoli belli sti materassi…”


Mi faceva un po’ pena. Era come se il suo lavoro fosse considerato poca cosa rispetto ad altri. Eppure con quanta lena, per tutte quelle ore, su e giù a furor di braccia tirava a e strappava quella lana, rendendola simile a capelli di un mago: lunga, grigia e liscia. Ma non toglieva la giacca, benché faticasse e lasciava la scoppola appoggiata su un angolo della ringhiera.
Ricordo che indossava pantaloni e giacca scuri, una camicia bianca e una scoppola scura, forse d’un verde sottobosco. Era un uomo di media statura, che mai avresti giudicato capace di tanta foga ed energia.
Al movimento che faceva, sempre uguale, come quello di un rematore schiavo in una trireme romana, avevo associato una canzonetta. E quando mi mettevo ad osservarlo sulla sogli di casa, me la canticchiavo a bassa voce:
“Lena per la lana! Ohi!! Lena per la lana!”
A mia zia, zitella sempre in cerca di spasimanti, venne proposto più volte:
“Il materazzaro ha un sacco di soldi… lo vedi quanto piglia per cardare un materasso ogni volta? Sarà un tantinello più grosso, ma che vuoi che sia qualche anno di più. Quello ti fa stare una signora!”
Al che lei rispondeva, con lo sguardo sdegnato: “Sì che bello guarda… la moglie del materazzaro! Come si chiamerebbe, Materazzara? Pensa che fine… pensa che elegante…”

Poi, come aveva finito, riponeva diligentemente ed in un ordine preciso gli attrezzi e si faceva pagare.
“Alla prossima Materazzà!”
“Alla prossima!” rispondeva.

Ma a tutto c’è una fine. Tutto sarà sostituito. Tutto cambia e si trasforma e si distrugge. Chi avrebbe più voluto un uomo tutto il giorno a sferruzzare dentro casa o per le scale quando si potevano aveve materassi in gommapiuma, economicissimi che te li portavano addirittura a casa? A rate poi. Tutto presto si comprò a rate e anche noi a furia di rate siamo stati comprati.

Le nostre finestre

Fuori dalla finestra
il broncio del cielo o il suo sorriso
ti dice del temporale che sale dal mare

Ti parla dello scirocco africano e del canto solo
del pescatore

cielo che sembra
scendere sui tetti
sui quali posano, ognuno sul suo trespolo
i piccioni

L’orizzonte di pini e di guglie torreggianti
è il mondo fuori dalla finestra
quelle finestre vecchie, fatte di legno e vetro,
da cui passava il gelo della tormenta
e la cui luce,
faceva liquido lo sguardo delle nonne
nel ripensare.

Il cielo bianco della neve
che così raramente si posava
solo intontendo le gialle margherite
e che proteggeva gli orti e ciò che era sepolto.

Fuori dalla finestra il mio cane corre
e compie giravolte nella neve
e il fumo puro del suo fiato
fuori della finestra
io lo vedo.

E vedo tornare il nonno,
e vedo fare un cenno di saluto, giù all’angolo
mio padre.

Quel che mi chiedo è di non dimenticare
quel che mi impongo è di ricordare.