Le otto montagne

Tra noi e gli scrittori veri c’è una inequivocabile differenza: sanno descrivere tempi che non conoscono; vaticinare futuri e cogliere prima del tempo l’essenza del mondo che verrà.
Quello è genio, predisposizione, sensibilità, vita, sofferenza, gioia ed esperienza. Quel qualcosa in più che li rende “geni” mentre noi e gli scrittori attuali non siamo che narratori di storie banali, quasi sempre tragicomiche od oltraggiose; quell’oltraggioso volgare e sanguinolento che tanto vende.
Solo ultimamente mi sono imbattuto in un racconto che mi ha come riacceso una speranza. La speranza di una narrativa sana; dove i paesaggi sono descritti con la dovizia dell’amore e i rapporti umani sono semplici, schietti e trasparenti come sorgive di montagna. I dialoghi non sono né ridondanti né riduttivi e la trama scorre senza essere superficiale.

Un buon romanzo quello di Cognitti, “Le otto montagne”. Si sente la sofferenza, la fatica e la soddisfazione. Quel mettersi a letto con ogni osso dolorante e dormire per stanchezza di cui parlavano i nostri avi. Anche la sofferenza di rapporti irrisolti che poi la neve schiarisce.
La città è distante. La fretta e la frenesia qui vengono dimenticate.
Questo romanzo è una cura.
Bravo.

Photo by Martin u010casnocha on Pexels.com

Un cambiamento

Ci vorrebbe davvero un cambiamento. Radicale.
Ogni giorno questa strada, questa fermata, questo pullman, la stessa ora.
E il pullman che invariabilmente arriva in ritardo.
Ecco: solo il ritardo è sempre diverso. Un quarto d’ora, mezz’ora, dieci minuti.
E l’imperturbabilità del conducente l’hai vista? Puoi recitargli addosso un calendario di bestemmie ma la sua espressione non cambierà mai: un “Se ti incazzi peggiori solo le cose” che gli invidi, perché taluni personaggi, come i conducenti di pullman, hanno la calma olimpica di un santone indiano.
Però avviene sempre qualcosa se fai qualcosa.
D’improvviso, accompagnato dalla musica preferita nelle cuffie, puoi sentire il gelo della salita sotto il peso dello zaino. Gli scarponi che scrocchiano nella neve fresca, il mutare della vegetazione passando dalla alta valle alle morene sterminate di ciottoli e ghiaccio.
Puoi sentire la fatica del fiato che s’impenna, mentre l’ossigeno scende e ristorarti scoprendo nascere da una polla sotto una falda di ghiaccio, un ruscello che più in basso andrà ad abbeverare le vacche e le pecore.
Puoi sederti addirittura sul molo di un vecchio porto odoroso di pece e sagole e di pesce andato a male. Puoi chiacchierare con vecchi beoni dalla voce strascicata, pieni di sé e di aneddoti chissà se veri o inventati e talmente inverosimili da apparire reali.
Puoi vedere vecchie lanterne cigolare su stipiti malfermi che il vento forte dell’Oceano strapazza. Puoi veder chiaramente la groppa enorme di Giona scivolare come una fluida montagna a pochi metri dalla tua esile barca.
E puoi spiare il bacio tra due amanti. Segreto, vaporoso, denso di promesse. Lei indossa uno di quei cappellini tenuti da un nastro sotto al mento, il colletto di balze e ha la vita esile. Lui è un bruno giovanotto, un po’ rubizzo in volto, ma tanto determinato quanto timido. Quel bacio esitante viene da una interminabile attesa, da sguardi scambiati di nascosto, da sorrisi elargiti per far capire senza esibirsi completamente. Lusinghe, allontanamenti, riavvicinamenti bramosi ed affamati.
Poi arriva la tua fermata.
Chiudi il libro e guardi la signora davanti a te.

Photo by Mathias Reding on Pexels.com

Un’altra goccia nel mare

Quando ero ragazzo e Roma, nonostante fosse Roma, riusciva ai miei sensi a sfavillare e profumare, ero solito fermarmi a leggere sulle panchine di Piazza Risorgimento, al capolinea.
Leggevo interi libri in due o tre giorni, del tutto ignaro di quel che accadeva intorno, ogni tanto attratto e subitamente innamorato di una ragazza, del tutto perso anche solo per uno sguardo, tremante per giorni dopo aver intuito un sorriso sfuggente sulle labbra di una ragazza e non troppo lontano da una grande libreria proprio davanti ai bastioni michelangioleschi. L’insegna maestosa e lunga per tutte le dieci vetrine campeggiava rossa. Libreria Maraldi.
Una libreria talmente grande che, mi ricordo, mi stupiva con sempre nuovi cunicoli , budelli e sotterranei che contenevano via via testi sempre più misteriosi, codici oscuri, edizioni infrequenti. Io trascorrevo in quel posto ore di perdizione; del tutto stordito da quell’odore di cartamuffa, di discorsi fatti sottovoce, di suono sfogliante.
Qualche anno fa, trasecolato, passando là davanti mi accorsi che non c’era più: frammentata e sub venduta a gelatai, mercanti di brutture, agenzie “skip the line“.
Inutile dire che con essa se ne andò e malamente una parte della mia giovinezza.

Ieri leggo che un altro baluardo di cultura, dopo anni di sforzi gestionali e perdite ingenti mese per mese, se ne va. Cara Libreria Odradek di via Dei Banchi Vecchi a Roma: che fosti così generosa da accogliere anche le mie fotarelle! A due passi da piazza Navona…. sparita anche tu! Perché “Muoiono anziani e accaniti lettori e non c’è il ricambio. Le nuove generazioni non vivono più nella “civiltà della carta

E in quale “civiltà” vivono le nuove generazioni? No, cara libreria Odradek; sei stata troppo buona. Le nuove generazioni, una volta presa dimestichezza con il telecomando della TV e cominciato a scorrere l’indice sullo smartphone non vivono più alcuna civiltà ma si assuefanno, si drogano di lampi di display, senza capacità di analisi e senza discernimento.
Non passano dalla carta alla lettura “liquida”, no. Proprio smettono di leggere.
Nel caso della lettura bisognerebbe smettere di essere politicamente corretti: alle nuove generazioni non interessa nulla della lettura: sono cose barbose, interminabili, ben più lunghe delle 30 pagine in media che un lettore di social riesce a tollerare prima di cambiare “visualizzazione”.
E che volevi fare, cara Odradek, superare indenne l’era di Bezos?

Teniamoci i “talent”, i “blogger”, “i Brands Ambassador”. La loro gestione è tanto più semplice, sbrigativa e crudele: basta scorrere l’indice.